FORMATORE DI ECCELLENZA

Stefano Del Prato

La diabetologia italiana: un’eccellenza internazionale

 

Prof. Stefano del Prato

Università di Pisa

Words

(…) per un ricercatore clinico quale io sono, la formazione che il nostro Paese offre in ambito sanitario stimola a mantenere sempre un raccordo tra attività di ricerca e cura

 

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

 

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Curriculum Vitae

     

     

    Ricercatore e formatore di livello mondiale nel campo delle malattie metaboliche, Stefano Del Prato ha concentrato la propria attività di ricerca sul diabete mellito di tipo 2 e l'insulino-resistenza. Professore di Endocrinologia all’Università di Pisa e Direttore dell'Unità Operativa di Malattie Metaboliche e Diabetologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, Del Prato ha alle spalle un lungo percorso formativo: laureato e specializzato in Endocrinologia e Medicina Interna all’Università di Padova, ha svolto una fellowship presso l’Università di Yale per poi assumere la posizione di Associate Professor alla School of Medicine dell’Università del Texas. La sua formazione è avvenuta a cavallo quindi tra Italia e Stati Uniti, avendo avuto come mentori il prof. Antonio Tiengo a Padova e il prof. Ralph DeFronzo a New Haven prima ed a San Antonio, poi.

     

    Cosa si riporta Del Prato di queste due grandi esperienze formative? La formazione in campo sanitario in America cosa ha in più e cosa in meno rispetto a quella italiana?

     

    Innanzitutto la fortuna di avere incontrato persone che hanno stimolato la mia curiosità scientifica, facilitato la mia crescita culturale e incoraggiato le mie ricerche.

     

    Padova era, negli anni in cui mi affacciavo alla ricerca clinica, una concentrazione di giovani ricercatori animati da un grande entusiasmo. Una siffatta condizione non era nata per caso, rappresentando invece il risultato di una lungimirante e illuminata politica di coinvolgimento di giovani curiosi e di interazione con il mondo scientifico internazionale. Proprio grazie a questa strategia fu per me possibile venire in contatto con una personalità scientifica di primissimo livello, un vero innovatore nell’ambito diabetologico, come il Prof. DeFronzo.

     

    L’esperienza americana è stata per me, come per tanti colleghi, un momento catalizzante, indispensabile a definire il proprio campo di interesse. Questo processo è sicuramente facilitato da un ambiente che, a differenza di quello italiano, è spesso completamente vocato e concentrato sulla ricerca.

     

    Peraltro, per un ricercatore clinico quale io sono, la formazione che il nostro Paese offre in ambito sanitario stimola a mantenere sempre un raccordo tra attività di ricerca e cura, nel mio caso, del diabete.

     

    Dopo aver conseguito le specializzazioni in Medicina Interna e in Endocrinologia, da cosa è nato l'interesse per le malattie del metabolismo e la diabetologia di cui ha fatto un indirizzo di vita oltre che di studi?

     

    Devo dire che il mio interesse per il metabolismo e la diabetologia sono nati ancor prima della mia iscrizione alla Scuola di Specializzazione in Endocrinologia. Questo interesse è nato prima della laurea, nel periodo trascorso da studente interno nelle Unità cliniche e di ricerca dirette prima dal Prof. Gaetano Crepaldi e poi dal Prof. Antonio Tiengo. Soprattutto quest’ultimo fin dall’inizio mi ha stimolato a considerare aspetti metabolici intriganti e mi ha avviato alle prime esperienze in laboratorio.

     

    La mia tesi di laurea era di argomento diabetologico e, per continuare quanto avevo iniziato in quella tesi, non molto tempo dopo essermi laureato feci la mia prima esperienza all’estero - a Madrid per la precisione - per acquisire un metodo di laboratorio che mi potesse permettere di approfondire quanto discusso alla laurea.

     

    Attualmente pensa che sia un buon momento per la ricerca in questo campo a livello mondiale? E in Italia?

     

    La ricerca in campo diabetologico è sicuramente molto attiva e con potenziali ricadute interessanti e di possibile rilievo per la stessa salute della persona con diabete. Questa ricerca spazia dalle cause genetiche ai meccanismi molecolari che portano allo sviluppo del diabete e delle sue complicanze.

     

    In questi settori la ricerca diabetologica italiana continua ad essere una ricerca di tutto rispetto, come dimostrato dal nutrito numero di contributi italiani in occasione del recente congresso dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD). Il congresso, a cui partecipano tutte le nazioni, vede l’Italia al quinto posto in termini di contributi scientifici. I ricercatori italiani, nel corso degli ultimi 12 anni hanno prodotto in tema di diabete oltre 3.000 lavori scientifici, la maggior parte dei quali pubblicati su riviste di grande prestigio internazionale.

     

    A livello mondiale la produzione scientifica del settore endocrino-metabolico occupa analoghe posizioni di rilievo, nonostante gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo siano solo la metà della media europea. Un fenomeno che qualcuno ha etichettato come il “paradosso della ricerca italiana”: pochi soldi ma risultati di alto valore. Questa situazione però difficilmente potrà continuare a lungo.

     

    Per questo, la Società Italiana di Diabetologia (SID), che al momento ho l’onore di presiedere, è fortemente impegnata nel sostenere la ricerca diabetologica. Dal 2007 al 2013, la SID ha investito in ricerca quasi 2,5 milioni di euro. Questa ricerca è esitata in una trentina di pubblicazioni sulle principali riviste internazionali di settore, riguardando il diabete autoimmune a lenta evoluzione, la caratterizzazione degli stati pre-diabetici per individuare meglio le persone a rischio e quindi esercitare una migliore prevenzione e infine lo studio sull’evoluzione nel nostro Paese della nefropatia diabetica e delle complicanze più gravi che maggiormente incidono anche sulla qualità di vita della persona con diabete.

     

    La SID è talmente convinta e dedicata a questa finalità che, recentemente, ha fondato l’Associazione Diabete Ricerca (www.diabetericerca.org) con la finalità di raccogliere adesioni e donazioni per finanziare la ricerca italiana nel settore.

     

    La Medicina è una scienza in continua evoluzione. Un’evoluzione garantita grazie al costante lavoro di ricercatori come lei e che obbliga il professionista ad aggiornarsi di continuo. Come considera in generale l'aggiornamento dei professionisti sanitari in Italia rispetto a quello di altri Paesi di cui ha avuto esperienza diretta?

     

    Vorrei parlare della formazione in ambito diabetologico che più da vicino conosco. È anche bene ricordare che, nel nostro Paese, oltre ad esserci una solida tradizione di ricerca nel campo della diabetologia, come abbiamo appena ricordato, vi è anche una forte attività clinica. L’Italia è stata tra i primi Paesi a dotarsi di una rete nazionale di strutture diabetologiche che, sicuramente, hanno garantito alla persona con diabete una cura e un’assistenza invidiabile nell’ambito dei Paesi avanzati. Parte integrante di questa tradizione è anche un processo di formazione continua, formazione che la SID ha, negli ultimi tempi, sempre più ampliato a fronte di una garanzia di assoluta qualità.

     

    Va inoltre considerato che alla formazione appartiene anche la possibilità di poter essere esposti a nuove proposte diagnostiche e terapeutiche. L’Italia ha sempre partecipato con garanzia di competenza e qualità alla ricerca clinica internazionale e alla sperimentazione dei nuovi farmaci in ambito diabetologico. Nel 2008, ad esempio, su 4.999 sperimentazioni cliniche sul farmaco, 160 riguardavano il diabete, pari al 3,3% del totale e al 40% della classe di riferimento. Questa attività, di vitale importanza per il processo formativo della classe diabetologica italiana, riconosce oggi una serie di limiti. Per esempio è ancora eccessiva la frammentazione e la mancanza di omogeneizzazione dell’operato dei Comitati Etici. Inoltre, l’attuale situazione economica e la rigidità dei processi di rimborso dei nuovi farmaci, limitano l’investimento dell’industria a livello nazionale, favorendo la crescente competizione dei Paesi emergenti e sottraendo opportunità di utile esperienza ai nostri diabetologi.

     

    Quale metodologia formativa utilizza più frequentemente per aggiornarsi e perché? Tra la formazione residenziale, sul campo e la formazione a distanza quale ritiene più idonea per la sua professione?

     

    Ritengo che ognuna di queste metodologie risponda ad esigenze diverse.

     

    La formazione residenziale continua ad offrire una possibilità di interazione diretta con l’esperto oltre che allo scambio di esperienze e informazioni tra i partecipanti. Se opportunamente gestita e non limitata ad una serie di lezioni ex cathedra può diventare utile palestra di idee.

     

    La formazione a distanza è la nuova sfida caratterizzata da fruibilità, flessibilità e rapidità.

     

    La formazione sul campo, invece, offre soluzioni pratiche a problematiche mirate, facendo acquisire in modo diretto e personale expertise specifica.

     

    La SID ha fatto della formazione, oltre che della ricerca, il suo principale obiettivo divenuto parte integrante della mission della Società. In veste di Provider accreditato, la SID nel 2012 ha promosso eventi formativi residenziali, a cui hanno partecipato oltre 4.000 discenti, e corsi FAD che hanno raggiunto quota 12.000 partecipanti. Inoltre a novembre si terrà il primo corso di formazione sul campo e vi sono altri corsi, già programmati per il futuro.

     

    Rimaniamo sempre in tema di aggiornamento professionale. Nel suo specifico settore, su quali argomenti c’è una maggiore necessità di formazione per il personale medico e paramedico?

     

    La Diabetologia è una branca in continua evoluzione. Migliorano le conoscenze, aumentano le opportunità terapeutiche, si definiscono meglio le capacità diagnostiche ma allo stesso tempo aumenta - purtroppo - il numero di persone con diabete, con un’incidenza crescente di bambini, persone giovani ed anziani.

     

    Credo che ci siano almeno tre o quattro principali aree in cui bisognerà investire nella formazione. Una di queste riguarda la personalizzazione della terapia e la conseguente appropriatezza prescrittiva. Intendo dire con questo, la scelta di un obiettivo terapeutico personalizzato sui bisogni della persona con diabete e quindi l’identificazione della terapia più appropriata, quella cioè in grado di garantire il miglior risultato e la sua più lunga persistenza. Il buon controllo metabolico rimane la misura più efficace per la prevenzione delle complicanze del diabete. Questo richiede conoscenza dei meccanismi della malattia e conoscenza dei vantaggi e svantaggi delle terapie farmacologiche attuali e future.

     

    A mio avviso inoltre, un altro argomento cardine su cui è necessario un approfondimento formativo è la ricerca di un approccio più scientifico e organizzato per la cura delle persone con diabete di tipo 1, alla luce di tutta una serie di innovazioni, anche tecnologiche - quali ad esempio il monitoraggio della glicemia e i microinfusori - e dell’evoluzione della terapia sostitutiva d’organo quale ad esempio il trapianto di pancreas e di isole.

     

    Altra tematica formativa necessaria è quella riguardante la gestione della persona diabetica in gravidanza e del diabete gravidico. La possibilità di cominciare a fare della prevenzione efficace è reale in questi casi.

     

    Ed ancora, la gestione delle persone anziane con diabete. Questa sarà una delle sfide dei prossimi anni alla luce dell’invecchiamento della popolazione italiana e dell’elevato numero di persone fragili.

     

    Infine, credo che la formazione dovrebbe perseguire la rifondazione e ridefinizione della figura del diabetologo come figura di elevata competenza professionale che possa porsi a guida della gestione della persona con diabete in collaborazione con le altre figure sanitarie così come, tra l’altro, delineato dal Piano Nazionale del Diabete di recente licenziamento.

     

    La sua dedizione verso questa tematica e il suo encomiabile percorso formativo e professionale l’hanno portata a ricoprire diverse cariche prestigiose: dal 2000 riveste il ruolo di Direttore dell'Unità Operativa di Malattie del Metabolismo e Diabetologia, presso l'Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana. Questo reparto si occupa di diagnosi e terapia del diabete mellito e delle sue complicanze. Visto che le malattie metaboliche coinvolgono diversi aspetti del complesso sistema che è il nostro corpo e comportano conseguenze gravi che vanno a interagire fra di loro provocando talvolta effetti a cascata, diagnosi tempestive e terapie mirate possono fare la differenza. Che dati può fornirci a riguardo?

     

    Molto si dibatte oggigiorno sui costi del diabete. Va subito detto, e con questo rispondo alla domanda, che la persona con diabete ha un rischio doppio rispetto a quella non diabetica di essere ricoverata.

     

    La recente indagine ARNO, svolta in collaborazione con la SID, ha riscontrato su un campione di circa 11 milioni di italiani tra cui circa 600.000 con diabete, un tasso di ospedalizzazione di 333, contro 172 per mille persone l’anno. I ricoveri nei diabetici inoltre, sono in genere più lunghi - in media 10.7 contro 9.0 giorni - e costano di più -in media 3.975 euro contro 3.762 euro. La persona con diabete si ammala in genere di più e non vi è altra condizione che non sia più frequente.

    Le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco sono aumentate del 263%, quelle per malattie polmonari del 259%, quelle per infarto del miocardio del 172%, quelle per polmonite del 170%, quelle per frattura del femore del 47% e per calcoli della colecisti del 31%. Questi ricoveri assorbono il 54% della spesa totale del diabete.

     

    Credo sia facilmente comprensibile a tutti che, se un risparmio va fatto, è su questa voce di spesa: quella dei ricoveri. Garantire un migliore stato di salute alla persona con diabete vuol dire, innanzitutto, garantire una migliore qualità di vita e in seconda battuta un risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale.

     

    Nel momento in cui viene diagnosticata una patologia metabolica, che importanza riveste la comunicazione tra medico e paziente? In generale come considera l'informazione che i mezzi di comunicazione forniscono a riguardo?

     

    La comunicazione è fondamentale ma sono anche convinto che questa comunicazione, o meglio questa educazione, vada avviata prima che venga posta la diagnosi di diabete o di altra patologia metabolica.

     

    Solo un’adeguata consapevolezza dei rischi e delle possibilità di prevenzione possono trovare un pabulum ottimale nel caso la patologia si manifesti. Faccio un esempio concreto: il diabete di tipo 2, quello più comune, è spesso asintomatico per lungo tempo e frequentemente diagnosticato casualmente, ma non per questo meno pericoloso se non opportunamente trattato. Considerata la pochezza dei sintomi, chi si preoccupa veramente di attenersi a regole o a terapie per prevenire qualcosa che potrebbe manifestarsi a distanza di 10-15 anni? Ma ancora di più, la consapevolezza a livello di popolazione generale è l’arma vincente per un’efficace prevenzione della malattia: una buona quota del diabete di tipo 2 può essere efficacemente prevenuta, ma a tal fine bisogna che oggi, e mi auguro sempre, le persone sane siano consapevoli non solo per se stesse ma anche per i propri familiari, per gli amici e i concittadini. In questo, i mezzi di comunicazione possono fare tanto ed assieme possiamo fare molto.

     

    Lei ha studiato a fondo il fenomeno dell'insulino-resistenza. Questa condizione si riscontra principalmente in soggetti affetti da obesità o, in generale, che conducono una vita sedentaria. In che modo, secondo le sue ricerche, l'insulino-resistenza può essere il preludio al diabete mellito di tipo 2?

     

    L’insulino-resistenza, cioè l’incapacità dell’insulina a permettere un normale ingresso del glucosio, principale fonte di energia, nei tessuti dell’organismo, è un fattore costante nelle persone con diabete ma anche in quelle a rischio di svilupparlo.

     

    Per compensare questa resistenza il nostro organismo mette sotto sforzo le cellule beta delle isole del pancreas, adibite alla produzione di insulina. Quello che succede è che, se tali cellule sono già difettose di natura, l’eccesso di richiesta comporta un progressivo venir meno di questa capacità di compensazione, così che il sistema non è più in grado di controllare i livelli di glicemia e il diabete si sviluppa e progredisce.

     

    Credo sia facilmente intuibile anche dal profano che, un modo per scongiurare questo rischio sia quello di non mettere troppa pressione alle cellule beta, obiettivo perseguibile migliorando l’insulino-resistenza. Tale processo è più facile da ottenere di quanto si possa pensare perché, tra i fattori che principalmente influenzano la capacità dell’insulina a facilitare l’utilizzo degli zuccheri, ci sono l’obesità e la ridotta attività fisica. L’accumulo di tessuto adiposo, soprattutto a livello addominale, comporta tutta una serie di meccanismi che ostacolano l’azione dell’insulina. Una regolare attività fisica determina una maggiore capacità dei tessuti dell’organismo di utilizzare gli zuccheri per piccole quantità di insulina.

     

    Abbiamo trovato quindi la chiave di volta per la prevenzione del diabete: attenzione al peso - e quindi alla dieta - ed una regolare attività fisica. Questi risultati sono stati provati da studi scientifici: uno studio americano e uno finlandese hanno dimostrato che queste semplici regole riducono del 60% il rischio di sviluppare diabete in soggetti ad alto rischio.

     

    Condurre una vita il meno sedentaria possibile e svolgere attività sportiva costante, oltre che seguire un'alimentazione equilibrata, restano dunque i principali consigli da seguire nella prevenzione al diabete?

     

    Ebbene sì. Innanzitutto è importantissimo seguire una corretta alimentazione. È curioso che il Paese additato come la patria della dieta sana per eccellenza - la dieta mediterranea - sia anche il Paese che rincorra i modelli peggiori. La dieta mediterranea era parte del nostro background culturale e ce lo siamo fatto scippare dagli stessi che hanno poi importato in Italia hamburger, pop-corn e bibite gassate.

    A questo proposito abbiamo perso una grande occasione quando si stavano per varare le restrizioni sulle bibite gassate: pochi giorni dopo la decisione di non perseguire tali provvedimenti, il New England Journal of Medicine pubblicava i risultati di importanti studi che ben evidenziavano il rischio connesso all’uso di queste bevande, soprattutto nell’infanzia.

     

    Ovviamente, oltre alla dieta, l’attività fisica è importante. Camminare, ballare, andare in bicicletta, fare le scale rinunciando all’ascensore o alle scale mobili ogni giorno è un semplice esercizio che andrebbe ripetuto il più regolarmente possibile.

    Voglio ricordare che un recente lavoro scientifico ha dimostrato come il solo interrompere attività sedentarie con quattro passi intorno al tavolo apporta di per sè un tangibile beneficio alla salute.

     

    Rimanendo sull’argomento insulino-resistenza si è visto che, oltre ad influire sulla glicemia, ha anche l'effetto di aumentare il rischio di ipertensione e dunque di far muovere i primi passi all'aterosclerosi. Come si può intervenire a tal riguardo?

     

    Come ho già detto, l’insulino-resistenza, se associata ad un difetto delle cellule beta, alla lunga porta all’innalzamento della glicemia. Di contro, se la cellula beta è una cellula sana, questa continuerà a rispondere producendo quell’eccesso di insulina capace di superare l’insulino-resistenza. Tale eccesso però può comportare altre alterazioni: ad esempio, potrebbe favorire la comparsa di un’ipertensione arteriosa o di alterazioni del metabolismo dei lipidi e della coagulazione, creando condizioni che possono indurre l’insorgenza dell’aterosclerosi. Cosa fare, l’abbiamo già detto.

     

    Anche qui vale la stessa regola. Ovviamente, abbiamo anche dei farmaci che sono in grado di migliorare la sensibilità all’insulina anche se, questi, sono di fondo meno efficaci del controllo del peso corporeo e di una regolare attività fisica. Quindi, non solo prevenzione del diabete ma miglioramento anche dei fattori di rischio cardiovascolare.

     

    Dalla sua esperienza di docente universitario e dagli interventi svolti negli oltre 300 congressi scientifici nazionali e internazionali, cosa giudica più importante trasmettere al giovane studente di medicina?

     

    Il nostro mondo e quello della ricerca hanno un grande bisogno di arruolare nuove forze. L’Università dovrà trovare il modo di attrarre i giovani, cosa che negli ultimi tempi sembra sempre più difficile, ed è un peccato oltre che un problema. Il giovane ha il vantaggio della vivacità e della curiosità: doti incredibili che noi, docenti o semplicemente persone con maggiore esperienza, dovremmo solo cercare di incanalare nel metodo scientifico, il quale deve rispondere al criterio del rigore ma che, nel contempo, è abbastanza semplice.

     

    Mi fa piacere che questa visione sia, ancora una volta, stata fatta propria dalla SID che molto ha investito sui giovani. Colgo l’occasione per ricordare che, proprio a novembre, si svolgerà a Roma il secondo congresso della SID che abbiamo intenzionalmente intitolato“Il diabetologo del futuro”. Un importante momento di incontro, rivolto agli specializzandi degli ultimi due anni delle Scuole di Specializzazione di tutta Italia.

     

    Ma oggigiorno credo che quello che dovremmo trasmettere ai nostri giovani è la fiducia: la fiducia che la competizione può essere dura ma assolutamente giusta e basata sul lavoro e sul merito. Credo che in questo la nostra responsabilità sia massima.

     

    Oggi nel campo dell’endocrinologia e nello specifico delle malattie metaboliche e della diabetologia è un punto di riferimento di livello internazionale. Guardandosi indietro a chi riconosce il ruolo di “maestro” e come costui ha influenzato il suo approccio alla professione e alla didattica?

     

    A livello personale l’ho ricordato all’inizio di questa chiacchierata. A Padova ho avuto la fortuna e l’onore di essere accolto ancora studente nel gruppo di lavoro del Prof. Gaetano Crepaldi e del Prof. Antonio Tiengo. Sotto la guida del Prof. Tiengo in particolare, ho trovato quegli stimoli e motivazioni che ad un certo punto mi hanno fatto prendere la decisione di fare un’esperienza all’estero. E quella è stata la seconda grande opportunità della mia vita professionale: l’incontro con il Prof. DeFronzo. Se oggi si parla di insulino-resistenza nel diabete e nelle patologie metaboliche il merito è di DeFronzo. E con lui ho rafforzato i miei interessi. A tutte queste persone devo però riconoscere, oltre che le qualità scientifiche, anche quelle umane. Senza quella che è, ora un insieme di stima e amicizia profonda, non si sarebbe consolidato quel rapporto che tanto ha contribuito alla mia carriera.

     

    È autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali. Qual è la sua pubblicazione più importante e perché la considera tale?

     

    La mia prima pubblicazione risale a 33 anni fa e quindi credo sia più facile identificarne una degli anni “giovanili” e una più recente.

     

    Degli anni giovanili, forse quella che ritengo più importante è quella in cui dimostrammo che anche nel diabete tipo 1 e non solo in quello tipo 2 esiste un certo grado di insulino-resistenza: fu una delle prime dimostrazioni, tra l’altro in competizione con osservazioni analoghe di DeFronzo. Mi piace ricordarlo perché fu un’osservazione originale e perché rappresentò il momento di contatto con DeFronzo e l’inizio di una lunga collaborazione.

     

    La seconda fa riferimento al mio più recente periodo pisano e si riferisce al lavoro che dimostrava il ruolo di una particolare variante genica sulla funzione della cellula beta nel diabete tipo 2. Credo che questo lavoro, al di là di essere stato ben pubblicato, rappresenti un po’ la “chiusura del cerchio” del mio interesse nella fisiopatologia del diabete di tipo 2, includendo nel suo percorso insulino-resistenza, glucosio-resistenza - un’altra osservazione cui rimango molto affezionato - e disfunzione beta-cellulare.

     

    Dal 2011 ricopre il ruolo di vice Presidente dell'EASD, l'Associazione Europea per lo Studio del Diabete. Quali sono le attività annualmente svolte dall'associazione e quali le principali linee guida sulle quali si sta muovendo nella ricerca sul diabete e per la formazione dei futuri medici su tale patologia?

     

    L’EASD è un’importante associazione scientifica che ha la sua massima espressione nel congresso annuale. L’ultimo di Barcellona ha visto la partecipazione di oltre 18.000 delegati. Ma oltre al Congresso, l’Associazione partecipa alla definizione di Position Statements e, in minor misura, alle linee guida. L’impegno maggiore è rappresentato dal sostegno della ricerca sia in termini di finanziamento che di advocacy.

     

    L’EASD tramite la sua fondazione, l’European Foundation for the Study of Diabetes (EFSD), ha sinora finanziato progetti per un valore di oltre 90 milioni di euro, investiti praticamente su tutti i campi di interesse con particolari programmi di collaborazione con la ricerca cinese, giapponese e di sostegno a quella dei Paesi dell’Est Europeo. Inoltre ha gemmato progetti come EURADIA e DIAMAP, piattaforme designate per definire le strategie di ricerca diabetologica in Europa e di convincimento a livello della Comunità Europea, al fine di sostenere la ricerca in campo diabetologico. Questa attività ha portato EASD a entrare a far parte con ruoli prominenti nello European Council for Health Research.

     

    Più recentemente, l’Associazione ha avviato un programma teso alla revisione dei processi di approvazione della tecnologia applicata al diabete.

     

    Considerati i suoi innumerevoli impegni le rimane del tempo libero da dedicare alle sue passioni?

     

    Meno di quanto mi piacerebbe. Ma cerco di difendermi. Ritaglio la mia settimana di sci (irrinunciabile!) e corro ogni qualvolta posso. Nel mio trolley c’è sempre un posto per scarpette e, ovviamente, il fine settimane gli amici suonano al campanello di casa per una corsa. Poi la musica classica, che lascio spesso di sottofondo ma che cerco anche di ascoltare, quando posso, con la dovuta concentrazione. Ed infine un’altra mia passione - un po’ inconfessabile dopo quanto detto - è la cucina. Adoro avere le mani in pasta ma con la dovuta attenzione dietetica. Una passione praticata più per soddisfare il palato che lo stomaco.

     

     

    29/10/2013



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